Roma. Il post 15 ottobre: il racconto di chi ha visto tutto con i suoi occhi

In Cronaca & Attualità, Politica, Primo Piano, Spazio al Sociale da Yari Riccardi Commenti

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Disperazione. Zero prospettive. Niente futuro. Indignazione. E rabbia, quella l’abbiamo vista più di ogni altra cosa. Il dopo 15 ottobre racconta un malessere diffuso e potente: un qualcosa che non può essere etichettato con una parola. Un malessere che viene evidenziato dalla Caritas proprio in questi giorni: il 20% delle persone che si rivolgono ai Centri di ascolto in Italia ha meno di 35 anni. In soli cinque anni, dal 2005 al 2010, il numero di giovani è aumentato del 59,6%. Disagio. E rabbia verso un sistema che non tutela e non coinvolge. Verso una politica che si dimentica – o se ne frega – dei suoi cittadini. C’è tutto questo nella manifestazione di Roma dello scorso sabato. C’è un movimento, gli Indignati, che tenta di scuotere coscienze con i mezzi della non violenza e della contestazione pacifica. E ci sono i black block che vogliono prendersi il presente, non essendoci il futuro. E poi le manganellate, gli idranti e le camionette incendiate, la spesa proletaria e le vetrine spaccate. Tantissima gente è scesa in piazza. Ma sarà la violenza ad essere ricordata. E si continuerà ad etichettare una generazione in un solo modo. Dimenticando tutto il resto.

Abbiamo deciso di raccontare il 15 ottobre attraverso tre storie di persone di differente età  e di diversa provenienza sociale. Occhi diversi per racconti diversi. Ci hanno detto cose che già immaginavamo: pensiamo agli agenti provocatori, prassi consolidata già ai tempi dell’unità d’Italia. Ma c’è molto altro: speranze infrante come le vetrine, botte prese senza motivo, memoria che corre verso anni che sembravano dimenticati. La piazza in mano ai violenti. Chi paga è sempre chi porge l’altra guancia.

Andata: un vagone pieno di speranza. “Siamo partiti con le migliori delle intenzioni, abbiamo riempito un intero vagone del treno. Usciti da Piazza dei 500 il gruppo si è diviso in 2 parti. Noi sfortunatamente ci siamo infilati in un punto critico del corteo. Già usciti dalla metro abbiamo avuto il presagio di ciò che poteva accadere. Accanto a noi sfilano un gruppo di ragazze e ragazzi vestiti di nero con i caschi, che seguivano un ragazzo con il megafono che li richiamava sotto il nome di gruppo autonomo”. A via Cavour il primo gruppo di incappucciati – “circa 50 ragazzi, a nostro avviso età media 16 anni con accento napoletano” – inizia a spaccare i vetri delle auto parcheggiate. Tra fuoco e vetrine distrutte, si arriva davanti al Colosseo. E la situazione degenera. “Intorno a noi non solo ragazzi e ragazze, ma anziani,famiglie e disabili che sentendo l'aria pesante cominciano a lasciare il corteo. Noi decidiamo di continuare. In lontananza intanto si alza una nube nerissima,capiamo da subito che non poteva trattarsi di una macchina perchè il fumo era molto più denso rispetto ai fumi che vedevamo in via Cavour. Il corteo si ferma e dal camion che seguiamo ci rassicurano dicendo che tutto andrà bene e non c'è nulla di cui preoccuparsi. Improvvisamente davanti a noi la gente spaventata non si sa da cosa, si gira di scatto e comincia a correre nella direzione opposta del corteo, provocando tensione tra gli altri manifestanti”. Un falso allarme, ma emblematico di quanto stava per accadere. Dura mettere un freno al panico. Soprattutto quando non si è messo in conto di poter affrontare certe situazioni.“Dopo 5 minuti arrivati davanti la caserma di via Labicana in fiamme inizia per noi la guerriglia urbana. Eravamo tutti quanti a volto coperto con kefie, felpe e fazzoletti per non respirare i fumi della caserma in fiamme quando improvvisamente dietro di noi la folla si disperde e vediamo arrivare a neanche 2 metri da noi le volanti e le camionette che arrivano impazzite ad alta velocità tra la folla. Rischiamo di essere investiti e ci spostiamo velocemente sul bordo della strada”. E’ il caos: scontri tra forze dell’ordine e black block, esplodono bombe carte, vengono lanciate sassi e bottiglie alle quali viene risposto con cariche e lacrimogeni. Occhi gonfi e gola in fiamme per chi era a Roma solo per manifestare civilmente la propria indignazione. La guerra – gruppi addestrati e preparati – è ovunque. “Molti si spostano in una via chiusa di fronte alla caserma e come in precedenza oltre alle bombe,i fumogeni, i lanci e le cariche dobbiamo stare attenti alla gente comune che manifesta che in preda al panico correva senza senso e ci schiacciava contro motorini parcheggiati e palazzi. Veniamo avvicinati da un black block, diverso dai ragazzini visti in precedenza, un omone di circa 40 anni (con l'aria da poliziotto) che ci indica la strada sicura dove scappare per non rimanere nello scontro. Seguiamo subito il consiglio e con gli occhi lucidi corriamo lungo la strada teatro di scontri, facendo lo slalom tra i secchioni rovesciati e le barricate create per bloccare le camionette”. I ragazzi arrivano in piazza san Giovanni. E vedono i primi feriti.“Un ragazzo senza dito viene portato in braccio e altri ragazzi con una maschera di sangue in volto siedono frastornati sulle scalinate della Basilica. L'indignazione tra la gente è forte, veniamo avvicinati da gente di tutte le età che si chiedeva come era possibile tutto questo. Ci affacciamo per vedere la situazione della piazza e chiediamo al ragazzo che fa la vedetta sul palo della luce cosa vede”. Altri scontri, e la “polizia che spara acqua con idranti non solo ai vandali, ma anche contro i manifestanti. Qualcuno addirittura sulla sedia a rotelle”. Arriva decisamente il momento di tornare a casa. Il problema è trovare la via più sicura.

“Impieghiamo quasi 2 ore per raggiungere una stazione metro aperta. Intanto incontriamo manifestanti e cittadini che ci indicano le strade sicure e le strade in cui si combatte. Arriviamo finalmente alle 7 e 15 a stazione Tiburtina dove distrutti attendiamo le 8 per il treno che ci riporterà a casa”. Cosa resta di una giornata così? Resta il calcio in faccia dato alle speranze di tantissime persone, e tantissimi giovani, come quelli che ci hanno raccontato la loro storia. “Doveva essere una festa, è stata una guerra. Abbiamo visto i volti di molte persone che crediamo non torneranno a manifestare per molto tempo. E intanto i tg come al solito danno moltissima visibilità agli scontri di alcune migliaia di persone e nessuno parla della manifestazione portata avanti pacificamente dalla maggior parte dei partecipanti obbligati come noi ad andare via”.

“Ragazzi tutti italiani, Alemanno non dica fesserie”. Davanti al corteo, da via Labicana fino ai piedi della basilica di San Giovanni. Fino all’inferno. Questo il viaggio di T. (40enne). “All'inizio tutto festoso e tranquillo, fischietti, tamburi, striscioni e tanta gente allegra. Le prime notizie le abbiamo avute mentre era un po' che stavamo a San Giovanni: si sono viste colonne di fumo e alcune persone riferivano degli scontri in quel momento in atto in via Cavour. Lì per lì non abbiamo avuto la sensazione che tutto degenerasse, poi sono arrivati i blindati in piazza subito dopo il camion dei Cobas. Così tutto ha avuto inizio”.  Novelli Cavalieri dell’Apocalisse, le intenzioni dei black block, o chi per loro, sono subito apparse evidenti al resto del corteo. “C’erano decine di ragazzi e uomini con i caschi, con in tasca bengala e bomboni, e che scaricavano dagli zainetti bulloni di ferro, sassi e altro. Tutta roba che si erano portati. Per inciso, io ho sentito solo ragazzi italiani e quasi tutti romani, Alemanno dice cazzate. Anche nel piazzale di via Appia era la guerra, siamo dovuti andare via da lì, ed erano per lo più ragazzi romani”. Scene che restano impresse nella memoria. “Mai così tanti lacrimogeni, con i manifestanti che si cospargevano il viso di arancio e limone per alleviare l'effetto, e i caroselli dei blindati, col rumore delle transenne e dei ferri spazzati via, e il tonfo sordo dei sassi sui blindati. Andavano velocissimi e anche gli idranti sparavano ovunque, anche su di noi che eravamo subito dopo i facinorosi”. Non è bastato alzare le mani, e gridare il loro rifiuto della violenza. In mezzo tra i due schieramenti. “Ci siamo seduti per manifestare la nostra voglia di stare in quella piazza e di starci senza fare casini. Poi però siamo stati presi in mezzo dai lanci, sassi da una parte e lacrimogeni dall'altra, e in quei casi non è lecito confidare nella capacità di discernimento di chiunque, neanche dei celerini”. Frustrazione e amarezza, in un clima che riporta indietro il tempo di 35/40 anni. “Volevamo stare in quella piazza e non è stato possibile. Sembrava di essere negli anni 70. Non parliamo di pochi teppisti isolati, sono intere fette di popolazione urbana e proletaria che dà sfogo alla loro idiozia e alla loro rabbia spaccando tutto. Ho visto sicuri sicuri due coppie di celerini infiltrati, molto anni 70 pure questo. C'è un popolo esasperato e bruto che i media non riescono neanche a percepire”. Gente che prende in ostaggio un intero corteo e lo porta dove vuole.

“In Siria va bene, e qui no?”. Ecco uno dei punti di riflessione più significativi. Perché nelle rivolte della Primavera Araba tutti parteggiano per il popolo che alza la testa, spesso violentemente, mentre quando accade in Italia la maggior parte non è d’accordo? “Sono stato tutto il tempo intorno a San Giovanni. L'atmosfera era bella…ma  – racconta P. – sapevo già cosa sarebbe successo, come, e più o meno quando. Quello di sabato è stato un allenamento organizzato per quando ci sarà da farlo sul serio: una difesa dello stato sociale. Ed era stato annunciato che sarebbe partito dal cuore del corteo una volta passata la prima metà. Non era niente a caso”. Le cose non possono cambiare, ha continuato P., con “con tamburi e bandiere arcobaleno. Capisco l'indignazione dei pacifici. Ma c'è bisogno di una rivoluzione sociale. E la rivoluzione non è un pranzo di gala o una manifestazione per freakkettoni”. E ancora la riflessione sulla rivolte nei paesi arabi, dove “sono tutti bravi ragazzi democratici che rivendicano la loro libertà… Perché qui no!?”, e scene di guerriglia, che sembrano un film, invece non lo sono. “La cosa che ti rimane impressa sono i volti dietro i bandana, gli occhi sotto i cappucci… Il tappeto di sanpietrini che rimane a terra dopo gli scontri. Gli <<sbirri>> fomentati che gridano come nei film. I lacrimogeni che ti bruciano persino sulla lingua quando respiri. Non si può accettare tutto come bestie”.

“Andassero a lavorare”. Questo l’invito più volte rivolto ai manifestanti. Indignati o violenti, poco cambia: per la nostra classe dirigente tutti giovani perdigiorno, senza principi e senza valori. Divertente. Ancora di più notare come è proprio il lavoro uno dei motivi di contestazione. Sentirsi dire di andare a lavorare quando il lavoro non c’è non è davvero il massimo. Quando lo stato sociale è solo per le emergenze e mai fornisce servizi, quando la sola ipotesi di un impiego fisso o di una pensione è utopia pura. Che mondo sarà quello dei nostri figli? Di base, resta l’amarezza per un corteo che poteva essere degno del movimento mondiale degli Indignati, e che di fatto è stato un bis del G8 di Genova, o poco meno, solo perché non ci è scappato il morto. Una piazza così non meritava questo. Ma è certo che le ragioni dei manifestanti che erano a Roma per gridare il loro malessere, lo sfacelo del loro presente  – parliamo di un movimento, quello degli indignati, che ha assunto proporzioni mondiali – non sono state recepite da chi doveva. La gente, quella che lavora, che non arriva a fine mese, che si prodiga per sopravvivere,  è stanca di vedere che le cose non vanno bene. Non c’è neanche la speranza del futuro. E un corteo pacifico e indignato, o una rivolta armata e preparata, sono segnali che vanno colti da chi deve farlo, fermo restando il concetto di violenza che non può essere accettato. Cogliere segnali. Per porre rimedio, e ricominciare. Almeno ad ascoltare. Ma non sembra tempo né di raccolta né di ascolto. 

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