La lettera. “Smaltimento distante dal concetto di recupero”: analisi del concetto di rifiuto

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Sembrerebbe delineata già da tempo quella linea sottile di avallamento dei poteri forti e delle combriccole tra pochi. Ascoltando il silenzio di pochi, imbavagliando le paure di molti, stendendo un velo su terreni naturali. Senza dimenticare quanto sponsorizzato nella campagna elettorale della Polverini sulla raccolta differenziata e quanto ancora il Prefetto Pecoraro sarà in grado di decidere per questa Italia che sponsorizza la crescita e la speranza, proprio come avvenne e tuttora avviene in Campania, Sardegna, Sicilia e cosi via per tutte le regioni.  Occorre riflessione sull’operato di chi dell’Italia vuole uccidere, soprattutto quando si parla, senza nulla togliere alle altre regioni, di Roma come porto turistico mondiale. Forse basterebbe pensare al senso comune e sulla nozione giuridica del concetto di rifiuto, oppure semplicemente alla bontà del rifiuto stesso. Per rifiuto, infatti, chiunque intende da sempre la res derelicta, priva di valore e utilità, che perciò viene scartata. In prima approssimazione può anticiparsi che il problema interpretativo nasce principalmente dalla circostanza che, secondo la legge, può costituire rifiuto non soltanto la res destinata all’eliminazione, ma anche quella che, contrariamente alla nozione propria del senso comune, conserva un valore residuo, potendosi ricavare da essa materie o sostanze suscettibili di riutilizzo. Tale profilo di incertezza ha sostanzialmente accompagnato la nozione di rifiuto dalla sua nascita sino ad oggi, causando non poche difficoltà negli operatori del settore economico – industriale e di quello della gestione e smaltimento dei rifiuti. L’incertezza della nozione, infatti, si risolve nell’incertezza delle fattispecie penali e amministrative poste a presidio della tutela ambientale in materia di inquinamento da rifiuti. In particolare, la nozione rileva quale oggetto materiale di tutte le fattispecie sanzionatorie contenute nella Parte quarta del c.d. testo unico ambientale, principale presidio contro le insidie tese al bene giuridico ambiente da una scorretta gestione dei rifiuti. Come noto il diritto ambientale ha faticato ad affermarsi nel nostro ordinamento. Tardività da parametrarsi con lo spiccato interesse dimostrato, per converso, dalla comunità europea sin dal Trattato istitutivo del 1957. Non fa eccezione la normativa in materia di gestione dei rifiuti, introdotta in un testo legislativo organico ad hoc nel nostro paese solo dal d.P.R. 915/1982, il quale con ritardo di sette anni recepiva, peraltro in modo ritenuto da molti commentatori incompleto, la direttiva del Consiglio del 15 luglio 75/442/CEE. Fino a quel momento, i primi accenni normativi al problema dellinquinamento da rifiuti potevano rinvenirsi nel testo unico delle leggi sanitarie, r.d. 27 luglio 1934, n. 1265.

La stessa norma conferiva al sindaco il potere di vigilare sull’esecuzione ed efficienza delle suddette norme e di provvedere di ufficio in caso di inadempimento nei modi e termini stabiliti nel testo unico della legge comunale e provinciale. Si trattava, come si vede, non di precetti o cautele prescritti al cittadino o all’operatore economico, ma di norme dirette agli organi amministrativi ed attributive di poteri. La loro applicazione era pertanto rimessa ad oneri di attivazione del sindaco o del prefetto.

Dal punto di vista penale non era quindi prevista alcuna sanzione per il detentore del rifiuto, eccettuata la contravvenzione di cui all’art. 650 c.p. per l’eventuale inosservanza di provvedimenti legalmente dati dall’autorità per ragione di igiene pubblica, sulla cui applicabilità ai casi di specie, tuttavia, la giurisprudenza, anche di legittimità, è sempre stata oscillante, propendendo talora per l’applicazione dell’art. 106 r.d. 383/1934 (testo unico della legge comunale e provinciale), che prevedeva una sanzione amministrativa per la violazione delle ordinanze emesse dal sindaco in conformità alle leggi ed ai regolamenti. Nella normativa in esame mancava, inoltre, qualsiasi definizione della nozione di rifiuto, talvolta indicato con il sinonimo di “immondizia”, con evidente richiamo al concetto diffuso nel senso comune.Alcuni anni dopo venne emanata la l. 20 marzo 1941, n. 366, in materia di raccolta, trasporto e smaltimento dei rifiuti solidi urbani. Tale testo normativo si apriva con una norma definitoria, secondo la quale, agli effetti dell’applicazione della legge stessa dovevano essere considerati rifiuti solidi urbani: a) (rifiuti esterni); b) (rifiuti interni). Il commentatore che ricercasse nella norma indizi della nozione di rifiuto, secondo le quali l'ipotesi contravvenzionale di cui all'art. 650 c.p. avrebbe natura sussidiaria, e sarebbe configurabile solo nei casi di violazione di ordinanze sindacali per ragioni di igiene emesse extra ordinem, al fine di ovviare ad improvvise emergenze dovute a fatti gravi, quali pubbliche calamità o epidemie. Sembrerebbe senza dubbio colpito per la sua tautologia, giacché essa sembra definire rifiuti “i rifiuti e le immondizie”. In verità, ad un’appena più attento esame si coglie come la finalità della disposizione non sia quella di delineare la nozione di rifiuto, ancora una volta intesa secondo il senso comune, bensì quella di porre una distinzione tra rifiuti urbani esterni ed interni, assoggettati dalla legge in esame a disciplina parzialmente differenziata. In definitiva, pare corretto affermare che la normativa in esame non annoverasse tra i propri obiettivi primari la tutela penale della gestione dei rifiuti, né in verità, se non incidentalmente, la tutela della salute e dell’ambiente. Tali esclusioni rivelano la ratio ispiratrice della norma, che sembrava enfatizzare soprattutto gli aspetti economici della gestione dei rifiuti e in particolare la necessità di ridurre gli sprechi e di incentivare il recupero dei materiali riutilizzabili nell’industria e nell’agricoltura. Tale intento, il quale apparirebbe oggi pionieristico, anticipando di mezzo secolo l’ispirazione dell’ultima direttiva europea in materia di rifiuti, in verità non può e non deve essere interpretato alla luce degli odierni principi di tutela ambientale e sviluppo sostenibile. Come è stato giustamente osservato, la normativa deve essere piuttosto, e più prosasticamente, calata nel periodo di guerra in cui fu emanata.

L’introduzione nell’ordinamento italiano della definizione di rifiuto. Il concetto di “destinazione all’abbandono”. Nel 1982, come detto, con circa sette anni di ritardo, il legislatore nazionale ha provveduto a recepire la direttiva 75/442/CE, trasponendola nel d.P.R. 915/19821. Si tende comunemente a riconoscere a tale normativa una notevole importanza, per lo meno simbolica, quale progenitrice della legislazione moderna: essa costituiva, infatti, pur con i suoi difetti, il primo intervento organico in materia di smaltimento di rifiuti, andando a coprire lacune normative all’interno delle quali si erano instaurate diffuse pratiche di traffico organizzato ed abbandono incontrollato. La nozione comunitaria, che definiva rifiuto “qualsiasi sostanza od oggetto di cui il detentore si disfi o abbia l’obbligo di disfarsi secondo le disposizioni nazionali”, venne trasposta, in modo per il vero impreciso, nell’art. 2 d.P.R. 915/1982, secondo il quale era rifiuto “qualsiasi sostanza od oggetto derivante da attività umana o da cicli naturali, abbandonato o destinato all’abbandono”. Come si vede, dunque, attraverso un’interpretazione ortopedica, ispirata al dettato della direttiva europea, si finiva con il ricondurre l’imperfetta trasposizione della norma definitoria italiana al testo comunitario, ancorando la nozione di rifiuto non più ad una qualità della cosa (abbandonata o destinata all’abbandono), ma alla destinazione alla stessa impressa dal suo detentore.

La definizione delle nozioni di “smaltimento” e “recupero”. Ulteriore profilo innovativo contenuto nella direttiva del 1991 e degno di menzione ai fini della presente ricerca, consisteva nella nuova definizione di “smaltimento”, distinta dal concetto di “recupero”. Mentre in precedenza la parola smaltimento ricomprendeva qualsiasi attività di gestione dei rifiuti, essa veniva ora sostituita, appunto, con la parola “gestione”, mentre la parola “smaltimento” veniva designata ad indicare leliminazione del rifiuto, compresi le operazioni e il trattamento preliminare eventualmente richiesti, e nettamente distinta dalla nozione di “recupero”. Le operazioni di smaltimento venivano riportate nell’allegato II A della direttiva, mentre quelle di recupero nell’allegato II B. Tale distinzione terminologica e di categorie indubbiamente utile alla sistemazione concettuale e sistematica delle procedure autorizzative, tuttavia alimentava le perplessità, già sorte sotto la normativa previgente, circa la possibile interferenza tra le diverse categorie di operazioni e la nozione di rifiuto: lasciava aperto, in altre parole, l’interrogativo se la sussistenza del rifiuto fosse da ricondursi alle sole ipotesi di smaltimento, sia pure previo trattamento, del materiale di scarto, ovvero anche alle ipotesi di avvio al recupero dello stesso.

“La decisione di disfarsi”. In relazione a questo secondo profilo, la direttiva del 1991 introduceva il riferimento alla “decisione di disfarsi” da parte del detentore. Tale innovazione era stata dettata dalla necessità di prevenire interpretazioni distorte della direttiva: si era infatti osservato che la definizione precedente avrebbe potuto essere intesa nel senso di consentire lo stoccaggio non autorizzato presso aree appartenenti al detentore di materiali o sostanze di scarto di cui lo smaltimento non fosse imposto per legge. In tali casi, infatti, a rigore non sarebbe ricorsa né una situazione in cui il detentore si disfacesse della cosa, né in cui avesse l’obbligo di disfarsene. Nel nostro paese, per il vero, l’equivoco era stato ovviato (forse inconsapevolmente) dall’uso della locuzione “destinato all’abbandono”, che, nell’interpretazione giurisprudenziale, aveva consentito di sanzionare anche laccumulo incontrollato di rifiuti presso il detentore. Tale innovazione, tuttavia, con lapparente richiamo ad un momento decisionale interno del soggetto agente, era destinata a riaprire le questioni in ordine alla rilevanza per la nozione di rifiuto di una indagine sull’animus del detentore e a riproporre le questioni sul quando si potesse ritenere che un soggetto avesse deciso di disfarsi di qualcosa.

L’interpretazione prevalente, il legame necessitato tra tutela ambientale e sviluppo economico sostenibile in ambito europeo sarebbe dichiarato già all’art. 2 del Trattato CE (oggi art. 3 del Trattato di Lisbona), il quale dispone che la normativa comunitaria debba mirare a favorire un “miglioramento delle condizioni di vita”. Tale espressione non potrebbe intendersi solo in senso economico, ma andrebbe considerata come riferita al perseguimento di un costante “miglioramento della qualità della vita” dei cittadini della Comunità. Ma a svelare più chiaramente l’impronta ecocentristica della nozione d’ambiente in ambito comunitario è l’art. 174 del Trattato, il quale, come noto, prevede che la politica della Comunità in materia ambientale debba mirare ad un elevato livello di tutela e fondarsi sui principi della precauzione e dell’azione preventiva, in un’ottica che travalica il limite temporale della vita del singolo, imponendo, in misura variabile a seconda dei differenti approcci, il sacrificio del presente per il futuro, Considerando inaccettata e priva di consistenza strutturale il sorgere di discariche come oggetto di abbandono, e come già accaduto rimaniamo destinatari di procedimenti d'infrazione per inadeguata gestione dei rifiuti, consegnandoli alla natura, rammentando che la gestione degli stessi spetta sempre a pochi individui capaci di disfarsene acquisendo aree di rinnovata risorsa comune. 

Alessio Lalli

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